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La storia di Rico tra le vette vicentine

Davide Peron, cantautore scledense, nel tour estivo ha raccontato le avventure di un soldato esperto e baldanzoso classe 1899

«Un messaggio di pace. In guerra perdono sia i vinti che i vincitori»

C’era una volta Rico, un ragazzo del ’99, 1899, andato alla guerra. C’era un’altra volta Rico, classe ’99, richiamato alle armi per la seconda guerra. Soldato esperto e baldanzoso a fior di pelle, uomo commosso, intenso, sotto la scorza segnato dalle battaglie e dalla loro durezza.

La storia di Rico, messa in musica e teatro, l’ha portata per le montagne vicentine durante l’estate il cantautore scledense Davide Peron. Artista innamorato delle Piccole Dolomiti e dei rifugi, nell’anniversario del centenario dello scoppio della Grande Guerra, ha voluto raccontare in sei luoghi di battaglia la storia di un soldato come tanti, per ricordare i caduti e raccomandare il presente alla pace.

Davide, hai voluto portare le tue canzoni sul Pasubio, sul Summano, ad Arsiero e Campogrosso, a Campomuletto e Trambileno. Come hai scelto questi luoghi?

«Dopo sette anni di giri tra le montagne con il “Mi rifugio in tour”, la mia carta d’identità artistica, visto l’anniversario della Grande Guerra, ho deciso di portare il mio pensiero su quello e sui tanti conflitti, abbracciando l’arco che va da Campogrosso ai Fiorentini e oltre, attraverso luoghi che sento familiari. Forse il luogo più suggestivo che ha ospitato lo spettacolo, soprattutto per l’affetto che provo io per quella montagna, è stato il Pasubio, dove si è combattuta una delle battaglie più cruente, dove si arriva solo a piedi, insieme a un maestoso coro, suonare, cantare è stato molto toccante. Anche le altre località, comunque, sono state evocative: tra rocce ancora segnate dalle trincee, terreni di scontri e battaglie, andavo a portare una riflessione sulla guerra e sulla pace».

Qual è il messaggio racchiuso nello spettacolo “’99 Rico va alla guerra”?

«È un messaggio di pace. Non so razionalmente spiegare il perché, ma da sempre sono contrario alla guerra, alle armi, alla violenza. Trovo che chiunque pensi di lanciare messaggi con gli armamenti sbaglia. E vedo che nelle guerre pèrdono sia i vinti che i vincitori. Nella mia vita, la scelta per la pace è stata concreta e si è tradotta nell’obiezione di coscienza, quando quasi non sapevo che si poteva rifiutare la naja legalmente».

Nello spettacolo, insieme a canzoni tue, canti pezzi celebri della Prima Guerra Mondiale. Che effetto ti fa, come musicista e uomo contro la guerra, pensare ai tanti soldati che sono saliti in montagna, hanno combattuto o pianto i compagni cantando?

«Non ho mai considerato la musica come un manifesto politico, che possa essere asservito a un colore o a una sigla. Riconosco, d’altra parte, che la musica non è fine a se stessa: è tesa a qualcosa d’altro, sa dire gli ideali, è capace di spingere l’uomo a vedere del bello, comunque, anche nella situazione più dura. Son convinto che la musica ti porta verso la bellezza, è uno strumento in mano a tutti perché possiamo sollevarci dallo schifo e raggiungere qualcosa di splendido. Penso che anche i soldati, attraverso la musica, potessero ricordarsi che il senso della vita non stava nella violenza bruta dentro cui erano immersi».

In scena con te ci sono l’attore Marco Artusi (nipote di quel Rico di cui si narra la storia), il chitarrista Roberto Dalla Vecchia e la voce di Carla Cavaliere. Non solo musica, dunque? «Lo spettacolo funziona perché ci siamo tutti e quattro: chi suona, chi canta, chi recita. Ognuno per una stessa idea. Non è un caso che la scena a cui sono più legato e che più mi emoziona sia il momento in cui Rico, veterano alla seconda guerra, ricorda il dolore della prima. C’è un’unione di teatro, racconto e canzone: il protagonista ricorda cosa succedeva in trincea e le sue parole vengono scandite dal drammatico ritornello di Tapùn, come in un dialogo. Qui abbiamo visto anche il pubblico piangere».

Tu fai musica in luoghi non convenzionali, di solito: rifugi, montagne, soprattutto. Che senso dai al tuo portare la musica “fuori”?

«In questo caso significa, per me, fare memoria e invitare altri a fare lo stesso. La guerra affascina, l’uomo è portato naturalmente a volersi affermare sull’altro, che diventa addirittura nemico. Si può guardare ai soldati come a degli eroi vincenti e gloriosi. Leggere anche la drammaticità del conflitto, il dolore, le vite perse, e farlo sui luoghi in cui questo si tocca con mano, in cui ciò è accaduto, è un esercizio di memoria, mediante il quale preparare il futuro, con dignità».

La storia di Rico, allora, rimarrà tra le vette o hai altri progetti?

«Rico è nato per le montagne, ma è pensato anche come uno spettacolo per i teatri, le sale, “la pianura”. Per ora, ci sono delle richieste sia da parte dei rifugi per l’anno prossimo, sia da parte di altre realtà per teatri. La disponibilità, da parte nostra, c’è tutta. L’importante è che passi il messaggio, di memoria e di pace».

Margherita Scarello

'Mi rifugio in tour 2014' al rifugio Campogrosso (Recoaro)

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